1 aprile 1809, Velyki Soročynci, Ucraina - 21 febbraio 1852, Mosca, Russia
Benché realistica nel suo fondamento, l'opera di G. si distingue da quella di altri realisti russi per la ricchezza dell'inventiva e la bizzarria dell'immaginazione; la sua prosa è intensa, ricca di cadenze ritmiche e di effetti acustici, il linguaggio è sempre smagliante e denso di qualità pittoriche. Tra le opere più significative si ricordano i racconti Taras Bul'ba (1834) e Arabeschi (1835), la commedia L'ispettore generale (1836), la raccolta Racconti di Pietroburgo (1842) e il romanzo Le anime morte (1842).
( font: varie dal web)
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"Quando e in qual modo Akàkij Akakièviè fosse entrato al ministero e chi ve l'avesse messo, è una cosa che nessuno ricordava. Per quanti direttori e vari superiori cambiassero, videro sempre lui allo stesso posto, nella stessa posizione, con le stesse funzioni, sempre lo stesso impiegato copista, tanto che poi si persuasero che, evidentemente, doveva esser venuto al mondo così, già pronto con l'uniforme e con la calvizie sulla testa. Nel ministero non gli dimostravano alcuna stima. Non soltanto i custodi non si alzavano dal loro posti quando passava, ma nemmeno lo guardavano, come se attraverso l'anticamera fosse volata una semplice mosca. I superiori si comportavano con lui in un certo modo freddamente dispotico. Un qualsiasi aiutante del capufficio gli ficcava letteralmente sotto il naso gl'incartamenti, senza neppure dirgli «copiate», oppure «ecco un bell'affaruccio interessante» o insomma qualcosa di piacevole come si usa negli uffici dove c'è della buona educazione. E lui prendeva, guardando solo l'incartamento, senza badare a chi gliel'aveva messo lì e se ne avesse il diritto. Prendeva e subito si metteva a copiarlo... "
Incipit:
Il 25 marzo a Pietroburgo accadde un avvenimento molto strano. Il barbiere Ivàn Jakovlèviè, abitante sulla Prospettiva Voznesènskij (il suo cognome è andato perduto e nient'altro risulta dalla sua insegna, dov'è raffigurato un signore con una guancia insaponata e c'è la scritta: «Si cava anche sangue»), il barbiere Ivàn Jakovlèviè dunque si svegliò abbastanza presto e sentì odore di panini caldi. Sollevandosi un poco sul letto, vide che sua moglie, una signora abbastanza rispettabile cui piaceva molto bere caffè, sfornava dei panini appena cotti.
«Oggi, Praskòvija Osìpovna, io non prendo il caffè,» disse Ivàn Jakovlèviè, «vorrei invece mangiare del pane caldo con la cipolla.»
(Ossia, Ivàn Jakovlèviè, avrebbe voluto l'uno e l'altro, ma sapeva che era assolutamente impossibile esigere due cose alle volta, perchè Praskòvija Osìpovna non amava per nulla simili capricci.)
«Che questo scemo mangi pure il pane; per me è meglio,» pensò fra sè la consorte, «così resterà una porzione in più di caffè.»
E gettò un panino sul tavolo.
Per decenza Ivàn Jakovlèviè si mise il frac sopra la camicia e, sedutosi a tavola, prese del sale, preparò due teste di cipolla, impugnò il coltello e, assunta un'espressione ispirata, si accinse a tagliare il pane. Tagliato il pane a metà, gettò un'occhiata nel mezzo e, con suo stupore, vide qualcosa che biancheggiava. Ivàn Jakovlèviè la sfrugacchiò cautamente con il coltello e la tastò con un dito:
«Solido?» disse fra sè, «cosa può essere?»
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