17 gennaio 2022

REBELOT - 30 racconti (flash fiction)





SCHEDA
Autore: Frame
Titolo: Rebelot
Genere: Raccolta di racconti.
Short Stories (flash fiction)

Descrizione
Rebelot è una raccolta di storie brevi (flash fiction - max. 1500 parole), ideati e scritti per la diffusione in rete, (Racconti – Online).
Rebelot, termine meneghino che non ha un corrispondente nella lingua italiana, indica invece l’assenza di un filo conduttore, la varietà di stile e di genere, e la stravaganza dei temi affrontati nelle 30 storie proposte. Dal racconto divertente di taglio web al mistery, dal giallino al noir passando per il gotico, dal fantastico all’horror,  al più classico dei generi, quello dei ricordi.

Lei mi conosce bene

Lei è mia moglie e ahimè, mi conosce bene.  Mi guarda dentro gli occhi e dice: «L’hai fatto!» 
È scaltra, abile, ostenta indifferenza, ma nel tono della voce c’è il rammarico di una certezza e il desiderio malcelato di essere smentita. Non so se rispondere, se ammettere la verità. Nel dubbio taccio e avanzo incerto verso di lei nella speranza, forse vana, che non sappia. Mi ferma con un gesto deciso: «Non mi toccare!» sibila indietreggiando. Mi guarda con disprezzo le mani e aggiunge: «Riconosco l’odore.» 
Quello sguardo di disgusto mi ferisce, ma ha ragione, anch’io mi sento sporco. È sempre così, dopo, e potrei rimanere sotto l’acqua bollente sino a farmi scorticare la pelle, ma non cambierebbe nulla. Non è soltanto dell’odore che mi vorrei sbarazzare, c’è anche quel senso di colpa, quel disagio, quel rimorso inasprito da placare subito per tirare avanti. 
«Questa volta, chi è?» mi domanda appena rientro in cucina...



Bruno non correre

Nel paese dove sono nato e al tempo in cui quasi tutto il mio mondo non andava oltre i confini della cascina, Bruno era il bambino più alto e robusto di tutta la corte. Ma, nonostante la sua faccia rubiconda e il suo aspetto florido, tutti pensavano che fosse malato.
Caterina, la madre di Bruno, era una donna energica e severa, che non perdeva mai di vista il suo unico figliolo, impedendogli di correre, di sudare, e di affaticarsi perché aveva il terrore che si ammalasse.
«Brunoooooo… Brunoooooo… Non correre, non toglierti i guanti, mettiti il cappello, copritiiii…»
Quella mamma così premurosa, minuta e gracile d’aspetto, era in grado di emettere urla tanto acute e laceranti da far trasalire e accapponare la pelle. Il suo grido di richiamo spaventava animali ignari nelle stalle, sparpagliava quelli sull’aia, metteva subbuglio nelle stie, nei pollai, nelle gabbie e raggiungeva il figlio, in qualunque posto egli si trovasse in quel momento...



Catrame

Spalo catrame tutti i santi giorni, ma se mi chiedono del lavoro che faccio, rispondo semplicemente che mi occupo del manto stradale. Mi piace la parola manto. È regale. Mi ricorda il velo di una sposa, lo strascico di una regina, le storie che mi raccontava la nonna: Biancaneve, Cenerentola e il Principe Azzurro. Anche lui portava sulle spalle un mantello, se non ricordo male. Amo il suono di quella parola e quando la pronuncio, sembra che la gente mi guardi in modo diverso. 
Asfaltista invece non mi piace. Assomiglia e fa rima con terrorista, disfattista, e tante altre brutte parole. 
Mia sorella, quella che ha studiato e fa la maestra d’asilo, sostiene che sono un fissato, perché “ista” non è un suffisso peggiorativo.  Trasforma giornalaio in giornalista, tanto per fare un esempio. E poi che c’entra, mi dice ancora, anche il farmacista è un bel mestiere.



Brutta

E pensare che era stato proprio Mario, una sera d’inverno al pub “Que viva Mexico”, a dirmi che Laura, la mia fidanzata, era brutta! Ma proprio brutta!
Per la verità, non disse proprio così!
No, non usò quelle parole, però mi bastò guardarlo in faccia, mentre mi domandava se stavamo ancora insieme, per capire il senso di quel sorrisetto strano e la ragione di quello sguardo sfuggente.
«Non te la prendere» mi disse poi, alzando in segno di resa, le sue enormi e ruvide mani da meccanico. «Dicevo tanto per dire…»
«Tu parli così, perché non la conosci bene» gli risposi, quando si decise a buttarmi gli occhi addosso. E sempre quella volta gli parlai di Laura come prima non avevo fatto mai...  



Conto alla rovescia

Mancano soltanto cinque minuti alle sei e non so se mi basteranno questi trecento secondi per decidere. Ho avuto quasi l’intera giornata a mia disposizione per pensare e ancora non so se andare a cena da lei questa sera, oppure inventare una scusa qualunque e tornarmene subito a casa. Potrei anche infilarmi dentro il bar e fare notte con gli amici, andare al cinema, o starmene solo... Perché no? 
E perché mai? - Mi domando - ma ho la testa vuota e non so proprio che fare. 
Ormai mancano soltanto tre minuti, e devo assolutamente riuscire a concentrarmi.
Sì, sono le diciassette e cinquantasette! Me lo confermano le quattro cifre in basso a destra sullo schermo del mio computer, lo leggo sul display del mio cellulare, me lo indica anche il cronometro al polso, ma soprattutto lo sancisce l’orologio appeso alla parete di fronte alla mia scrivania; l’unico ufficialmente autorizzato a scandire il tempo in questo ufficio del cavolo.


La corriera del nonno

Prima di morire mio nonno era quasi completamente cieco e, benché non si lamentasse mai della sua condizione, noi della famiglia sapevamo che il suo cruccio maggiore era quello di non poter più leggere. Ricordo che un giorno, quando ero poco più che un bambino, lo sorpresi mentre sfiorava con le dita il dorso dei libri sullo scaffale in salotto. Ogni tanto ne estraeva uno, lo tastava, se lo rigirava nelle mani, poi lo rimetteva al suo posto sorridendo. 
E più tardi, quando anche la memoria lo stava abbandonando e riviveva lucidamente solo ricordi molto lontani, mi confidò che leggere un libro era per lui come prendere la corriera e partire per un viaggio.
«Se ci penso bene è sempre stato così,» mi rispondeva, «Anche se ora ripercorro con la mente solo strade conosciute, ma la memoria talvolta mi tradisce e dimentico il tragitto, mi perdo per strada e confondo i luoghi, i personaggi e le storie.»


Alidada

Alidada? 
Giovanni Perotti non aveva idea di cosa fosse quell’attrezzo dal nome tanto bislacco. Lui sapeva a memoria le formazioni della Juventus dal 1930 in poi e poteva elencare, senza mai sbagliare, le vittorie del Gimondi al Giro e al Tour. Della Nazionale di calcio ricordava i risultati, le date, anche il nome degli arbitri e, quando era di luna buona, poteva parlare al contrario ma, non distingueva una chiave inglese da una pinza giratubi.  
Eppure, senza nozioni di meccanica ma con molta buona volontà, aveva imparato in breve tempo a far funzionare a meraviglia la fresatrice: una portentosa macchina utensile che tra le sue mani inesperte sfornava cerchi d’acciaio come fossero noccioline.
In realtà, il Perotti, questi cerchi d’acciaio grezzo, del diametro di trenta centimetri e dalla sezione rettangolare, li doveva soltanto sbavare nel punto di saldatura. Un’operazione semplice e di scarso impegno mentale, tanto che una volta preso il ritmo egli si permetteva perfino il lusso di seguire il corso dei propri pensieri: cosa che ritarda soltanto l’inevitabile rincoglionimento, ma di sicuro combatte la noia... 


Blob

L’altra sera dopo cena, mentre dormivo profondamente in poltrona, forse per merito di un noioso dibattito politico alla televisione e la complicità di un buon bicchiere di Montepulciano di Controguerra, sono entrato di soppiatto nella mia testa. Volevo dare una sbirciatina al mio cervello e capire che fine fanno tutti quei nomi propri di persona, animali e città, che alla bisogna mancano regolarmente all’appello.
Mi aspettavo, a dire il vero, di trovare il solito disordine dentro il mio cranio. Pensavo di dover affrontare a viso aperto la confusione mentale di sempre, e di assistere al consueto carosello di domande senza risposte. Temevo inoltre di scorgere l’abituale trambusto tra le vecchie opinioni, di ravvisare fermento tra i dubbi vaganti, tra i problemi irrisolti e la sfilza d’idee assurde sparse in ogni dove. Ho dovuto invece costatare, con mio grande stupore e con un certo sgomento, che tutta questa mercanzia giaceva abbandonata su vecchi scaffali polverosi e che la frenesia di un tempo, in quello spazio angusto, era completamente scomparsa... 



Cretino… Cretino…

La mattina che incontrai Margherita, ricordo che era quasi primavera e nella mia città, anche se può sembrare strano, splendeva il sole. Sognavo di camminare a piedi nudi nel parco, mentre la mia testa ciondolava davanti al finestrino della filovia da almeno venti minuti e, se tutto andava bene, me ne aspettavano altrettanti prima di arrivare alla mia fermata. 
Quel avanti e indrè costava due ore della mia giovane esistenza, e le mie chiappe secche si erano ormai rassegnate a quei sedili scomodi, lisi e puzzolenti. Soltanto i miei occhi sonnolenti e pigri vagavano tra la folla, posandosi su l’unica cosa che a quella età mi pareva degna di essere guardata. Le donne! Sì, guardavo instancabilmente solo quelle. Le passavo in rassegna tutte, giovani e meno belle.
La mia timidezza tuttavia, mi costringeva a partire con una sbirciatina veloce alle caviglie. Dalle scarpe e dai polpacci cercavo di immaginare cosa avrei trovato arrampicandomi con lo sguardo lungo il corpo... 


Sora Rosa

«Ah… Riccardì!» 
Fece Sora Rosa entrando in cucina. 
«Te la ricordi Lucia? Quella che si somigliava tanto alla figlia di Adelina, quella bella figliola che ti piaceva tanto, quella che…» 
«Sì... ma'. Me la ricordo, eccome no, certo che me la ricordo.» 
«Ah... volevo ben dire. Porella… Povera ragazza... Mo’ s’è sciupata pure lei, vedessi come s’è ridotta. E lo vuoi sapere che fine ha fatto Lucia? Eh Riccardì - rispondi a mamma tua - lo vuoi sapere che fine ha fatto Lucia?» 
A quel punto Sora Rosa, visibilmente pallida in volto e con l’affanno, adagiò con prudenza mezza natica sulla punta della sedia. Dall’altra parte del tavolo, Riccardo, si affrettò a far sparire dentro la bocca una forchettata di bucatini e, senza sollevare lo sguardo dal piatto, ciondolò la testa in segno di assenso. In quel momento, solo l'Amatriciana sottostante avrebbe potuto testimoniare l'espressione rassegnata stampata sul suo volto ma, non essendo stata interrogata e avendo altro di cui preoccuparsi, anche la pasta tacque e la mamma di Riccardo cominciò...



Why

La musica degli Eurythmics avvolgeva il locale in una soffice e calda coperta. Annie Lennox cantava - how many times… quante volte devo tentare di dirti che mi dispiace per le cose che ho fatto - mentre io guardavo rassegnato due occhi a mandorla che facevano capolino dietro un enorme White Russian e mi domandavo insieme a lei: «Why?»
Perché quel delinquente di Mario non mi restituisce i miei soldi, invece di farmi regali di questo genere? Perché quella canaglia non mi dice che i soldi non li ha e che forse non li avrà mai, invece di scaricare dentro il mio bar tutte le ragazze di cui si vuole liberare? Il cadeau orientale arrivava certamente dal night del mio ex socio in affari, era incartato e infiocchettato come un uovo di Pasqua; non aveva ancora un nome, non parlava, non mi guardava, ma in compenso beveva come un marinaio in libera uscita...



l’Appuntamento

La storiella che mi sono inventato per mancare al solito appuntamento del giovedì sera, questa volta ahimè non ha funzionato. Sì, sono sicuro: questa volta non l’ha bevuta! L’ho capito dal tono della voce e quando ha riattaccato, il click del telefono mi è arrivato all’orecchio, sonoro come uno schiaffo. 
Che imbecille sono stato! Eppure, sul momento mi sembrava una buona scusa, anzi, dopo il secondo Negroni consumato al bar sotto casa mi ero sentito un mezzo genio. Oddio, un mago in questo genere di cose non lo sono mai stato, tuttavia ero convinto di farla franca, di sfangarla ancora una volta invece, invece…
Del resto, che la mia vecchia Bravo, sempre più di frequente non voglia saperne di mettersi in moto è abbastanza risaputo. I miei amici sono al corrente del suo cattivo stato di salute e, chiunque la guardasse, anche solo di sfuggita, capirebbe che il catorcio è in fin di vita...



La solita minestra

Di quella volta che la mia mano finì tra le ganasce di un laminatoio, di quei minuti terribili e interminabili impiegati per estrarmi l’arto dall’ingranaggio, della vertiginosa corsa sull’ambulanza, e delle facce smunte di chi mi stava intorno ho sempre avuto un ricordo molto vago. 
Ricordo invece perfettamente l’arrivo al pronto soccorso. L’odore intenso del disinfettante, l’improvviso silenzio, le mani energiche che mi frugavano, che mi tastavano ovunque, e tutto questo mentre avrei voluto gridare: «Ehi voi, teste di cazzo - Che state facendo? - Lasciate in pace la mia mano, non la toccate… guai a voi se la tagliate!
No, non me la tagliarono la mano. Me la ricucirono per bene, ma così bene che a militare non si accorsero di nulla e mi fecero artigliere. 
«Che culo!» disse il mio amico Mario, laconico come sempre, mentre osservava da vicino le cicatrici sulla mia mano destra. «Ti è andata proprio di lusso.» ...



Il mestiere di fare il formaggio

Quando il sole all’orizzonte si appoggiò sulla cima degli alti pioppi, Arturo capì che era arrivato il momento di tornare a casa. Si riempì la bocca di more pallide, guardò per l’ultima volta la cascina tra le foglie del gelso e con un balzo scese dalla pianta. Con i piedi nudi affondati nell’erba, il sole sembrava più basso e doveva arrivare a casa prima che la mamma si accorgesse della sua assenza. A quell’ora lei scostava la tenda sull’uscio e lo chiamava a gran voce.
Al tramonto la cascina si scrollava dal torpore pomeridiano ed entrava in fermento. Si radunavano le galline nel pollaio e si bagnava l’orto. Si raccoglieva sulle rive delle rogge l’erba medica per i conigli e si andava a prendere il latte in stalla.  E prima che il papà tornasse dal caseificio, Arturo non doveva dimenticare di lavarsi le gambe e la faccia alla fontana o al fosso. Soprattutto adesso che le sue frequenti scappatelle in paese avevano bisogno di una nuova scusa. La solita bugia della dottrina non poteva più bastare.
Sua madre faceva troppe domande su quelle lezioni di catechismo e aveva appreso con diffidenza la sua volontà di diventare presto un chierichetto della parrocchia...



Melhaiel  (l’Angelo di Maria)

Prima di coricarsi Maria pose accanto alla scatola con il fiocco rosso un piatto colmo di dolcetti, mandarini, frutta secca e, nello spegnere la luce, si assicurò che in cucina tutto fosse in ordine. S’infilò nel letto accanto a suo marito che dormiva ormai profondamente e chiuse gli occhi cercando d’immaginare il volto felice di suo figlio, mentre giocava col nuovo trenino elettrico. 
Pensò ad altre cento cose in attesa di prendere sonno: alla spesa da fare, alla bolletta della luce da pagare, al suo capufficio, a suo marito che russava e alla lavatrice da riempire. Per la paura di dimenticarlo pensò anche al compleanno della suocera e alla fine si addormentò. Era la sera del dodici dicembre e prima che Santa Lucia bussasse alla porta, il suo cuore cessò improvvisamente di battere.
Il primo ad accorgersi della sua morte fu Melhaiel, il suo angelo custode che, sorpreso e sconvolto per l’inatteso evento, prima si dispiacque poi, incapace per sua natura di pensare che si trattasse di un'ingiustizia o di un errore del Padreterno, si domandò suo malgrado perché mai Maria dovesse morire così giovane e proprio quella notte...



Un incontro chiave

 
Il sole esausto, ma ancora minaccioso, cercava un varco tra le fresche valli dei Monti Sibillini. Intanto Guido, il bagnino, sulla spiaggia ormai deserta spegneva gli ombrelloni uno ad uno senza affanno, quasi con rassegnazione. L’estate era breve su quel tratto di costa selvaggia e l’hotel alle sue spalle si sarebbe svuotato entro pochi giorni.
 «Quando parti?» domandò il Signor 48.  
«Domani mattina.» rispose la Signorina 29.
Guido alzò gli occhi su quella strana coppia e notò che l’avvocato, un cliente nuovo di mezza età, dalla parlantina disinvolta e l’accento del nord, aveva le spalle più curve del solito; il passo strascicato e la testa piegata in avanti, sembrava improvvisamente invecchiato. Nonostante tutto era ancora un bell’uomo, e la signorina dell’ombrellone in prima fila, con l’aria un po’ triste e un libro sempre tra le mani, non sembrava indifferente alle sue attenzioni... 



La cartolina

Quella mattina la montagna aveva tutta l’aria di volersi scrollare di dosso le case aggrappate alle sue pendici. Imponente e nitida nell’aria tersa del mattino, era una costante minaccia per Giovanni che abitava in cima alla collina e alle spalle aveva solo il mare. Con l’animo inquieto e un brivido nella schiena, anche per l’aria fredda che scendeva a valle e sollevava la pula dei campi d’orzo appena falciati, si diresse verso il portico. 
La stalla dei conigli era avvolta nella penombra del primo mattino, ma Giovanni non tardò ad accorgersi che una femmina gravida, una di quelle che a giorni avrebbe dovuto partorire, era scomparsa dalla gabbia! Si guardò intorno sconsolato, poi infilò con cautela la mano dentro il nido per sincerarsi che fosse vuoto.
 “Questa bestia è sempre stata una sciagura!” si disse, ringraziando a modo suo le anime del purgatorio, “Si sarà agitata prima del parto e lo sportello sbilenco ha ceduto.” Doveva essere andata proprio così e adesso non aveva molte speranze di ritrovarla. A quell’ora l’animale poteva essere ovunque: sotto l’uliveto, in mezzo alla vigna e perfino nel sottobosco di fondovalle... 



Dramma in cascina

Nel preciso istante in cui il Signor Zaccaria aprì gli occhi, decise che qualcosa doveva cambiare nella sua vita. L’odio profondo che nutriva per quell’essere immondo che lo perseguitava, lo aveva portato bruscamente ad accettare la cruda realtà, ad ammettere a se stesso che non ci fosse altra soluzione che estirpare il problema alla radice, e benché sino a quel momento si fosse ostinato a usare ancora termini come eliminare, sopprimere, annullare, la parola chiave adesso era una sola ed inequivocabile: uccidere! 
«Lo strozzo con le mie mani!» pensò, mentre si radeva e con i nervi ancora scossi per il brusco risveglio. «Com’è vero Iddio e fosse anche l’ultima cosa che faccio al mondo!» aggiunse con un sibilo e guardandosi nello specchio, non si avvide del lampo di follia che gli balenava negli occhi. 
«Che fai oggi?» gli domandò la moglie, mentre versava il caffè nella tazzina. «Ci sarebbe da finire di potare la vigna e…» ...




Ghiaccio bollente

Quella maledetta sera che Robert perse il posto di cameriere all’Odeon, io me lo sentivo che sarebbe successo qualcosa di spiacevole al locale. Non potevo immaginare che il destino si sarebbe accanito con il mio giovane collega, ma avevo avuto un presagio di guai in arrivo soltanto qualche ora prima. Quando un gruppo di giapponesi alla deriva, sotto la Galleria del centro, mi aveva incrociato a pochi metri dal mio consueto obiettivo, impedendomi così di strofinare le suole dei miei mocassini sulle parti intime del toro incastonato nella lastra di marmo. Il mancato rito scaramantico non poteva che dare origine a qualche sciagura, era inevitabile, era solo questione di tempo e purtroppo non dovetti aspettare molto per averne la conferma.
Robert era nato a Montreal, per questo motivo lo chiamavano il Canadese, anche se aveva una bella faccia nostrana che tradiva le sue vere origini abruzzesi. Allegro e di bella presenza, forse un po’ troppo grosso per la sua giovane età e non molto alto, nel suo doppio petto nero e con il cravattino faceva la sua bella figura... 



Al vino ci penso io

Sono stanco! 
Sì, sono proprio stanco di trovare il telefono sempre occupato. E non ne posso più di sentire il tu-tu nelle orecchie, e quella voce di plastica che dice, il numero da lei chiamato potrebbe essere occupato in questo momento…  
Ho capito!  
Non sono uno stupido, lo so che la linea non c’è, non è necessario che lo ripeti tutte le volte! 
Chiunque tu sia, maledetta, dimmelo ogni tanto, magari una volta la settimana, anche una sola volta al giorno, ma non c’è bisogno che parli… forse lo fai per non farmi sentire cosa sta dicendo quella là. Dimmi piuttosto con chi sta parlando, così ti rendi utile e perlomeno giustifichi la tua presenza nel mio telefono. 
Una cosa è certa, io le donne in generale e in modo particolare le casalinghe, proprio non le capisco. 
Ma come fanno? Mi domando sempre inutilmente...



Il treno della speranza

Quella notte aveva nevicato come sulla costa non si era mai visto.  Alla luce del grigio mattino e sotto una pesante coltre bianca tutto era diverso; anche il mare e le facce delle persone che incontravo sul marciapiede scivoloso avevano un’aria nuova e stranita. Il disorientamento generale alla stazione invece, era dovuto ai notevoli ritardi dei treni e, mentre aspettavo l’arrivo del primo convoglio per Milano, speravo ancora che qualcosa m’impedisse di partire. 
Eppure era stata mia la decisione di levare l’ancora, portando con me solo uno spazzolino da denti, qualche indirizzo sull’agenda, pochi numeri del telefono e una laurea in legge che avrei barattato volentieri per un lavoro qualunque.
Nonostante i miei scongiuri, il diretto proveniente da Pescara arrivò con soli venti minuti di ritardo e senza rendermene conto, mi ritrovai con le natiche gelate su di un sedile scomodo a guardare la schiuma del mare che lambiva e si confondeva con la neve fresca sulla battigia...
 



Un Manhattan di periferia

Sono le prime note di No ordinary love, con la voce calda e sensuale di Sade a colmare il silenzio avvilente di questo Cocktail Bar di periferia. Apro i battenti quando fuori è già buio, aspetto i clienti della notte e solo alle prime luci dell’alba uscirò da questa tana per respirare di nuovo una boccata di aria fresca. 
Avrei bisogno di qualcosa con più ritmo per restare sveglio, ma mi devo accontentare degli UB40. Non ho molta scelta tra i pochi e vecchi CD che la casa mi mette a disposizione. Il primo cliente entra sul dolce ritmo di, Red...red wine.
È Gianni! Sempre il primo e con lui non ci sono problemi, beve solo Glenlivet e non devi fare altro che fingere di ascoltarlo, mentre parla della sua ex, del lavoro in banca e del Milan. Ripete sempre le stesse cose, è monotono ma gentile, non dà fastidio e non stacca mai gli occhi dal fondo del bicchiere. Il secondo è il suo amico Mario e beve solo ciò che Gianni gli offre, ma almeno lo ascolta e insieme mi lasciano in pace. Il terzo cliente arriva dopo il secondo giro di Whisky... 



A quel punto della notte

È quasi mezzanotte quando la porta di vetro si spalanca e una coppia male assortita entra nella hall dell’albergo. Lui è un marcantonio con il cranio rasato e lucido, lei uno scricciolo di donna che nasconde il viso dietro un baschetto alla francese di lana rossa e il bavero del cappotto dello stesso colore. Sfoderando un sorriso cavallino il cliente si avvicina al banco della reception. È alto, dinoccolato e ondeggia anche da fermo. Appoggia le manone sul piano di marmo, dà un’occhiata in giro e poi fa: 
«Una matrimoniale per un paio d’ore» e ancora prima che io possa rispondere mi rifila un «Quanto mi costa?» Così sonoro e sfacciato che costringe la donna a nascondersi tra il cardamomo e la dracena dell’ingresso. 
«Sono ottanta, signore» gli rispondo con calma. Il nostro non è un albergo a ore, ma ho imparato che è meglio non discutere con i clienti. 
«Se paga subito, può lasciare la stanza quando desidera.»
È strano. Non protesta. Non chiede nemmeno lo sconto, e non vuole sapere altro. Ha solo fretta di concludere...



Miracolo a Caravaggio

La mattina che appiopparono la santità a mio fratello Mario nostra madre ci buttò giù dal letto così presto, ma così presto, che fuori era buio e il gallo dormiva ancora.
«Sbrigatevi!» disse. «Vostro padre finalmente si è deciso e ha promesso di portarci tutti a Caravaggio.»
«Caravaggio?» domandò mio fratello con la faccia schifata, che di natura è sempre stato bastian contrario.
«Sì, oggi è il giorno della Madonna,» rispose la mamma, «una grande festa al Santuario.»
Era domenica, e alla Santa Messa non si poteva mancare, pertanto l’idea non mi parve così peregrina. Mio fratello Mario, invece, non capiva quale fosse la novità, poiché alla fine sempre in chiesa si doveva finire.
Vorrei per brevità e per non tediare nessuno arrivare subito al fatto, ma la memoria mi riporta inevitabilmente anche al viaggio, una delle nostre ultime avventure sulla Seicento di papà. Che la “poverina” soffrisse il caldo per sua natura era noto a tutti, ma ciò che ancora ignoravamo, abitando in campagna e avendola acquistata di seconda mano, era che fosse intollerante anche al traffico e alle code... 


Nebbia d’autunno

L’estate era arrivata di soppiatto e con prepotenza mi aveva spogliato, spremuto e prosciugato anche le ultime speranze di una rapida guarigione. Sfrattato dal mio letto fui relegato giorno e notte sul balcone a boccheggiare tra i gerani, in compagnia del cane e un canarino spento che, infastidito della mia presenza, si rifiutava di cantare. Mai avevo odiato tanto la mia casa, la mia città, il sole, il cielo, la luna, le stelle e tutte le persone che intorno a me ansimavano, sbuffavano e con le loro attenzioni mi soffocavano. 
Allo stremo delle forze, sfinito e incarognito, con sottile piacere accolsi il fragore dei tuoni, il bagliore dei lampi del primo e devastante temporale d’agosto. In settembre, finalmente, respirai avidamente il primo alito di aria fresca e, soltanto verso la fine del mese di ottobre, all’ora di pranzo di un giorno che era iniziato perfino con un raggio di sole, sulla città calò repentina la prima nebbia d’autunno. Verso sera la nebbia era già così fitta che dalla mia finestra potevo vedere solo i bagliori dei lampioni sulla strada. Davanti a quella spessa cortina grigia, con la punta del naso appiccicata al vetro, avevo la netta sensazione che i rumori della strada faticassero a salire fino al terzo piano...



La bici nera

Mio padre dorme sull’ottomana, mentre io leggo un Tex Willer sdraiato sotto il tavolo: il posto più fresco di tutta la casa. Ascolto lo sbuffo che emette con la bocca ogni tre secondi. Mi ricorda lo sfiato del pallone di plastica finito sopra il cactus: l’unica pianta grassa dell’aiuola in cortile. Era una palla da quattro soldi, ma me l’aveva regalata proprio lui, per la festa della Madonna del Bosco. 
Da allora non ho più avuto un pallone tutto mio. Adesso gioco con quello degli altri. Mi ha promesso una bici col cambio ma dice che sono ancora troppo piccolo per certe cose.
«Usa la bicicletta di tua madre.» dice sempre. «È senza canna e per quella sei grande abbastanza!»
“Dobbiamo andare! Presto… non c’è tempo da perdere: Piccolo Falco è in pericolo.» Tiger Jack è il primo a balzare in sella al suo mustang, seguito da Aquila della notte. Speriamo che non sia successo nulla di grave a Lilith.» dice, Tex Willer…”
 È a quel punto della storia che dal cortile arriva il fischio di Roberto. Lo sente anche mia madre che sta lavando i piatti in cucina...



Una voce sul fiume

Quella mattina sotto il ponte dell’Adda io pescavo cavedani. Anche vaironi, scardole, barbi, boccaloni, e persino alborelle. Insomma, mi sarei accontentato di un pesce qualunque che si fosse degnato di abboccare a quell’amo disgraziato che avevo immerso, da un paio d’ore almeno, nelle acque verdi che scorrevano verso il Po.
Quando ero arrivato sulle rive ancora umide di rugiada del fiume, mi ero ripromesso di prendere un paio di pesci e ritornare a casa prima di pranzo; l’avevo detto anche a mia moglie di prepararmi solo un risottino. Per secondo mangiamo un poco di pesce, avevo aggiunto spavaldo e in preda all’euforia che mi assale sempre prima di partire, bardato di tutto punto, per la grande battuta di pesca. 
Invece il sole era già alto e il mio galleggiante, abbandonato nella corrente pigra, svilito e svuotato di ogni entusiasmo si lasciava trascinare mollemente senza un sussulto, un tremito, uno scarto, un leggero palpito. Non succedeva nulla, anche nella mia testa, solitamente affollata di pensieri e preoccupazioni, regnava una calma piatta... 



Il mestiere di sopravvivere

Tutte le mattine alla solita ora, anche adesso che non devo più andare in ufficio e potrei rimanere a letto finché mi pare, mia moglie spalanca la porta della stanza da letto e mi chiama: 
«Fredo…Fredo… È ora!» strilla, e non si allontana prima d’avermi sentito rigirare nel letto.
«È ora di fare che?» mi domando invariabilmente, anche se non trovo mai il coraggio di ribellarmi o di attardarmi per soli pochi minuti sotto le coperte, perché temo di compromettere il perfetto meccanismo che regola l’intero ciclo delle faccende domestiche. Mi alzo pertanto senza protestare, vado in bagno e davanti alla finestra alzo gli occhi al cielo e prendo cognizione del tempo che fa. È una vecchia abitudine alla quale non intendo sottrarmi, anche se non ha più molta importanza che piova o splenda il sole, lo faccio solo per decidere quali scarpe mettere, al resto del mio abbigliamento pensa ancora lei, compresa la camicia e la cravatta...



Un cliente modello

Per la maggior parte dei clienti abituali dell’Hotel Marebello, quelli della seconda metà di luglio perlomeno, era semplicemente il “Bolognese”. Alcuni conoscevano persino il suo nome di battesimo, Vittorio; mentre solo l’albergatore, la segretaria e il portiere lo chiamavano signor Guidi. Al resto del personale invece, bastava il numero della sua stanza abituale per identificarlo.
La trecentoundici era una camera singola del terzo piano con un letto aggiunto, leggermente più corto del normale, misura utile per incastrarsi perfettamente tra la finestra e l’armadio e senza il conforto di un comodino. La stanza, minuscola per dimensioni, essenziale e triste nell’arredamento stile anni Sessanta, era provvista anche di balconcino vista mare e di un bagnetto privato senza piatto doccia. Lo scarico, un buco nel mezzo del pavimento concavo, risucchiava l’acqua emettendo rumori inquietanti. Nei periodi di bassa pressione, soprattutto di notte, il tanfo sapeva di creme solari ed emulsioni abbronzanti in lenta decomposizione...



Un bel fico secco

Non dimenticherò mai la faccia di mio padre il giorno che me ne andai di casa sbattendo la porta. Sette centimetri di rovere massello trafitti dalla sua frase preferita: «Vattene pure, questa casa non è un albergo!» 
La seconda cazzata, l’anatema più gettonato nelle ultime settimane: «Ricorda che se te ne vai, qui non metti più piede!» mi raggiunse mentre stringevo la maniglia del portone: a un solo metro dal marciapiede, a un passo dalla strada, proprio dove lui aveva previsto che un giorno sarei finito. 
La mia risposta a denti stretti si confuse tra il frastuono del traffico intenso nell'ora di punta e lo sferragliare del tram che, tra due file di enormi platani ignari, immobili e spogli, correva veloce verso il centro.
Non era la prima volta che minacciavo di trasferire le mie chiappe secche e le mie tasche vuote da qualche altra parte ma, dopo l'ennesima discussione, iniziata per una banalità e sfociata nella solita gazzarra, avevo deciso che in quella casa non potevo più restare... 



 

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