29 novembre 2018

FULMINE DETTO FUL - Giavannino Guareschi


SCHEDA

Autore: Giovannino Guareschi (1908 - 1968)
Titolo: Fulmine detto Ful
Tratto da: Don Camillo e il suo gregge
Rizzoli 1953
Genere: Racconto

Descrizione:
Nel vecchio paese della Bassa Padana, Peppone e don Camillo continuano, negli anni dell'immediato dopoguerra, la loro guerra privata, sempre - naturalmente - a maggior gloria di Dio e del Partito.
Questa invece è la storia di come Fulmine detto Ful, un cane di razza purissima e dal fiuto eccezionale sia finito nelle mani di Don Camillo e Peppone. Ancora una volta, in un susseguirsi di situazioni divertenti e paradossali, i due rafforzano la loro complicità mostrando come l'amicizia va ben oltre la divergenza politica. 
                           



FULMINE DETTO FUL
Giovannino Guareschi


Due giorni prima che aprissero la caccia, Lampo morì. Era vecchio come il cucco e aveva il pieno diritto di essere stufo di fare il cane da caccia, u mestiere che gli dava una fatica straordinaria pe la semplice ragione che non era il suo.
Don Camillo non potè fare altro che scavare una profonda buca nell'orto, vicino alla siepe di gaggia, buttarvi dentro la carcassa di Lampo, ricoprirla di terra e sospirare.
Per una quindicina di giorni don Camillo ebbe il magone, poi gli passò e una mattina, Dio sa come, si trovò in mezzo ai campi con la doppietta tra le mani.
Una quaglia si levò da un prato d'erba medica e don Camillo fece partire un doppietto. La quaglia continuò a volare tranquilla e don Camillo stava per urlare: «Cane vigliacco!», ma si ricordò che Lampo non c'era più e il magone gli tornò.
Girò come un maledetto in mezzo ai campi lungo gli argini e sotto i filari di viti, sparò come una mitragliatrice ma non concluse un accidente. Come si fa a combinare qualcosa di buono senza cane?
Gli era rimasta una cartuccia: una quaglia si levò e don Camillo sparò quando l'uccello stava cavalcando una siepe. Non doveva averlo sbagliato: ma come fare per saperlo? Poteva essere caduto in mezzo alla siepe, o nell'erba del prato oltre la siepe. Come cercare un ago in un carro di fieno. Meglio lasciar perdere.
Don Camillo soffiò dentro le canne della doppietta e si guardava attorno per orizzontarsi e trovare la via di casa quando un fruscio gli fece volgere la testa.
Dalla siepe saltò fuori un cane che gli arrivò di corsa fin davanti e gli buttò ai piedi la grossa lepre che teneva tra i denti.
— Vecchio mondo! — esclamò don Camillo. — Questa è bella. Io sparo a una quaglia e questo qui mi porta una lepre.
Don Camillo raccolse la lepre e vide che era bagnata. Anche il cane era bagnato. Evidentemente veniva dall'altra riva e aveva traversato a nuoto il fiume. Mise la lepre dentro il carniere e si avviò verso casa. E il cane, dietro. Il cane lo seguì e, quando don Camillo entrò in canonica, si mise ad aspettarlo accucciato davanti alla porta.
Don Camillo non aveva mai visto un cane di quella razza. Era una gran bella bestia e doveva essere anche in gamba parecchio. Magari si trattava di uno di quei cani che hanno la carta con l'albero genealogico come i conti e i marchesi: comunque non aveva nessun documento di riconoscimento indosso. Portava un bel collare, ma sul collare n c'erano targhette con nomi o indirizzi.
«Se non viene dall'altro mondo e se qualcun lo ha perso, questo qualcuno salterà fuori», pensò don Camillo. E fece entrare il cane.
Poi la sera, prima di addormentarsi, pensò parecchio al cane, ma si mise l'anima in pace concludendo:
«Domenica lo dirò in chiesa».
La mattina presto, quando si alzò per dire 1 Messa, don Camillo aveva dimenticato il cane: se lo ritrovò tra i piedi mentre stava per entrare i chiesa.
— Fermati lì e aspetta! — gli gridò don Camillo. E il cane si accucciò davanti alla porticina della sagristia e, quando don Camillo uscì, era an cora lì e gli fece festa.
Fecero colazione in compagnia e alla fine il cane, vedendo don Camillo prendere la doppietta che stava appoggiata in un angolo, per attaccarla al solito chiodo, incominciò ad abbaiare, e correva verso la porta, poi rientrava per vedere se don Camillo lo seguiva e continuò tanto questa commedia che don Camillo dovette imbracciare la doppietta e avviarsi verso i campi.
Era un cane straordinario, una di quelle bestie che impegnano moralmente il cacciatore: che lo inducono a pensare: «Qui se sbaglio il colpo faccio una figura da cane! ».
Don Camillo si impegnò a fondo perché gli pareva di dover dare l'esame e, francamente, fu un cacciatore degno del cane.
Ritornando col carniere pieno don Camillo prese una decisione: «Lo chiamerò Fulmine». Poi in un secondo tempo, pensando che Fulmine è un nome che non finisce più perfezionò la cosa: «Fulmine, detto Ful».
Ora che aveva finito il suo lavoro, il cane stava prendendosi un po' di vacanza rincorrendo le farfalle, lontano mezzo miglio, al margine di un enorme prato d'erba medica.
Ful! — urlò don Camillo. Successe come se qualcuno, dall'altra parte del prato, avesse lanciato contro don Camillo un siluro: il cane partì a pancia a terra e si vedeva soltanto la scia che, fendendo il mare d'erba, la bestia lasciava dietro di sé.
Ed ecco Ful con una spanna di lingua fuori, piantato davanti a don Camillo, in attesa di ordini.
Bravo Ful! — gli disse don Camillo. E il cane gli combinò tutt'attorno una tale sarabanda di salti, di guaiti e di abbaiamenti da indurre don Camillo a pensare:
«Se questo non la smette, mi metto ad abbaiare anch'io! ».
Passarono due giorni e un dannato piccolo Satana che si era messo alle calcagna di don Camillo e gli faceva lunghi discorsi tentatori, era quasi riuscito a convincerlo di dimenticarsi che, la domenica, doveva dire in chiesa del cane trovato, quando, nel pomeriggio del terzo, tornando a caccia col carniere pieno e con Ful che funzionava da battistrada, don Camillo incontrò Peppone.
Peppone era cupo: veniva anche lui dalla caccia, ma il suo carniere era vuoto.
Peppone guardò Ful, poi cavò di tasca un giornale e lo aperse.
Curioso, — borbottò; — pare proprio il cane che cercano qui.
Don Camillo prese il giornale e trovò subito quello che non avrebbe mai voluto trovare. Un tizio di città offriva una ricca mancia a chi gli avesse fatto ritrovare un cane da caccia così e così, smarrito il giorno tale, nel tal posto lungo il fiume.
Bene, — borbottò don Camillo. — Faccio a meno di dirlo in chiesa domenica. Lasciami il giornale. Poi te lo rendo.
Capisco, però è un peccato, — replicò Peppone. — In paese si dice che sia un cane straordinario. D'altra parte pare che sia la verità perché dei carnieri così, quando avevate Lampo, non ne avete mai portati a casa. Peccato davvero. Io, se fossi in voi...
Anche io, se fossi in te, — lo interruppe brusco don Camillo. — Siccome però io sono in me, faccio il mio dovere di galantuomo e restituisco il cane al padrone legittimo.
Arrivato in paese, don Camillo entrò di corsa all'ufficio postale e spedì un telegramma al tipo dii città. E il piccolo dannatissimo Satana che stava studiando un bellissimo discorso da fare a don Camillo, perdette la partita. E ci rimase male perché aveva pensato che don Camillo avrebbe scritto una lettera al tipo di città: non aveva pensato al telegrafo.
Per scrivere una lettera ci vuole il suo tempo, quindici, venti minuti. E in quindici o venti minuti un Satanello in gamba riesce a capovolgere una situazione. Per buttar giù quattro parole di telegramma in un ufficio postale ci vogliono pochi secondi e anche un Satanasso grosso ha poco da fare.
Don Camillo tornò a casa con la coscienza a boato, ma con un magone grosso così. E sospirava Scora più forte di quando aveva seppellito Lampo.
Il tipo di città arrivò il giorno dopo su una tu Aprilia». Era tronfio e antipatico.
È qui il mio cane? — domandò.
Qui c'è un cane smarrito da qualcuno e trovato da me, — precisò don Camillo. — Che sia vostro dovete dimostrarlo.
Il tipo di città descrisse il cane dal principio alla fine.
Può bastare o devo anche descrivervi come Mono fatte le sue budella? — concluse.
Può bastare, — rispose cupo don Camillo prendendo la porticina del sottoscala.
Il cane era accucciato per terra e non si mosse.
Ful! — lo chiamò il tipo di città.
Si chiama così? — domandò don Camillo.
Sì.
Strano, — osservò don Camillo.
Il cane non si era mosso e il tipo di città lo chiamò ancora :
Ful.
Il cane ringhiò e i suoi occhi erano cattivi.
Non pare sia il vostro, — disse don Camillo. Il tipo di città si chinò e, agguantato il cane per il collare, lo trascinò fuori dal sottoscala. Poi rovesciò il collare e, sotto, c'era una targhettina d'ottone che portava incise alcune parole.
Legga, reverendo. Qui c'è inciso il mio nome, il mio indirizzo e il mio numero di telefono. Anche se il cane non pare mio, lo è.
Il tipo di città indicò l'automobile a Ful:
Su, monta! — ordinò.
E Ful lentamente, con la testa bassa e la coda t le gambe, salì sulla macchina e si accucciò nel fondo
Il tipo di città cavò di tasca un biglietto da cinquemila lire e lo porse a don Camillo:
Per il suo disturbo, — disse.
Per me non è un disturbo restituire la roba trovata al legittimo proprietario, — rispose don Camillo respingendo il danaro.
Il tipo di città ringraziò don Camillo:
Le sono molto riconoscente, reverendo. È un cane che mi costa un sacco di quattrini. Razza purissima. Viene da uno dei migliori canili inglese. Ha vinto tre premi internazionali. Io sono un po’ impulsivo: l'altro giorno mi ha fatto sbagliare una lepre e allora gli ho mollato una pedata. È un cane permaloso.
È un cane che ha una dignità professionale — rispose don Camillo. — La lepre non l'avete sbagliata, tanto è vero che poi l'ha trovata e l’ha portata a me.
Gli passerà, — ridacchiò il tipo di città risalendo in macchina.
Don Camillo passò una nottata perfida e, mattina seguente, quando uscì dalla chiesa dopo aver celebrata la Messa, era cupo. Pioveva a scroscio e tirava un vento maledetto, ma Ful era lì.
Infangato fino agli occhi e bagnato come uno straccio da pavimenti, Ful era lì accucciato davanti alla porta della sagristia e, quando vide don Camillo, combinò una cosa da finale dell'ultimo atto.
Don Camillo rientrò in canonica con Ful, e subito gli venne la malinconia.
C'è poco da illudersi, — disse sospirando al cane. — Ormai sa la strada e verrà a riprenderlo ― il cane guaì come se avesse capito. E si lasciò lavare e ripulire da don Camillo e poi si accucciò davanti al camino dove don Camillo aveva acceso una fascina perché Ful si asciugasse.
Il tipo di città ritornò lo stesso pomeriggio. Era arrabbiatissimo perché aveva dovuto inzaccherare sua «Aprilia».
Non ci fu bisogno di spiegare niente: entrato in canonica, trovò Ful accucciato davanti al camino pento.
— Mi dispiace di darle altro disturbo, — disse il tipo di città. — Però vedrà che è l'ultima volta. Lo porterò in una mia villa che ho nel Varesotto. Di lì non scapperebbe neppure se fosse un piccione Viaggiatore.
Quando il tipo di città lo chiamò, Ful ringhiò con cattiveria e stavolta non salì da solo sulla macchina, ma dovette cacciarvelo per forza il padrone. E quando fu su tentò di scappare. E quando fu chiusa la portiera incominciò a saltare sui sedili e ad abbaiare rabbiosamente.
*
La mattina seguente, don Camillo uscì dalla canonica col cuore che gli batteva forte: ma Ful non c'era. E Ful non venne neanche il giorno dopo e, a poco a poco, don Camillo si rassegnò. E così passarono quindici giorni, ma la notte del sedicesimo, verso l'una, don Camillo sentì che qualcuno lo chiamava da giù, ed era Ful.
Scese di corsa, e lì nel sagrato sotto le stelle si svolse la più patetica scena di ritrovamento che mai sia stata scritta. Tanto patetica da far dimenticare a don Camillo di essere in camicia.
Ful era in condizioni disastrose: sporco, affamato e tanto stanco da non poter neanche tener diritta la coda.
Ci vollero tre giorni per rimetterlo in fase, m la mattina del quarto, quando don Camillo rientrò in canonica finita la Messa, Ful gli prese la sottana fra i denti e lo tirò verso l'angolo dove era appesa la doppietta, e combinò una tal scena-madre da c stringere don Camillo a prendere schioppo, cartuccera e carniere e a darsi ai campi.
Passò una settimana straordinaria: Ful era sempre più fenomenale e i carnieri di don Camillo facevano diventare verdi tutti i cacciatori della zona.
Ogni tanto qualcuno veniva a vedere il cane e don Camillo spiegava:
Non è mio: me l'ha lasciato qui uno di città perché glielo abitui alla lepre.
Arrivò, una mattina, anche Peppone e stette i silenzio a guardare Ful per un bel pezzo.
Stamattina non esco, — disse don Camillo — Lo vuoi provare?
Peppone lo guardò sbalordito.
Dite che verrebbe?
Credo di sì: non sa che sei comunista, vede con me e crede che tu sia una persona per ben
Peppone non rispose perché l'idea di provar quel cane fenomeno gli faceva dimenticare tutto resto. Don Camillo staccò dal chiodo la doppietta la cartuccera e il carniere e consegnò la mercanzia Peppone.
Ful, che, visto don Camillo avvicinarsi ali schioppo, era entrato in agitazione, guardò stupito la manovra.
Ful, vai col signor sindaco, — gli disse don Camillo. — Io oggi ho da fare.
Peppone, agganciata la cartuccera, messo a tracolla il carniere e passata sulla spalla la cinghia della doppietta, si avviò: Ful lo guardò, poi guardò don Camillo.
Vai, vai, — lo incitò don Camillo. — È brutto ma non morde.
Ful si avviò seguendo Peppone. Ma era perplesso e, fatti pochi passi, si volse.
Vai, vai, — gli ripetè don Camillo. — Però stai in guardia perché tenterà di iscriverti nel suo Partito.
Ful si avviò. Se don Camillo aveva dato schioppo, cartuccera e carniere a quello là significava che quello là era un suo amico.
Ful ritornò dopo due ore: entrò di corsa in canonica con una magnifica lepre in bocca e la depose ai piedi di don Camillo.
Di lì a poco arrivò, ansimando come una locomotiva, Peppone fuori dalla grazia di Dio.
Al diavolo voi e il vostro cane straordinario! — urlò. — Bravo, bravissimo, un vero fenomeno, però mangia la selvaggina! Una lepre lunga così si è fregato! Le quaglie e le pernici me le ha portate: la lepre se l'è fregata!
Don Camillo tirò su la lepre e la porse a Peppone.
È un cane che ragiona, — spiegò. — Ha pensato che se lo schioppo e le cartucce erano mie, era giusto che fosse mia anche la lepre ammazzata con quello schioppo e quelle cartucce.
E il fatto che Ful avesse agito in perfetta buona fede, era facile capirlo perché quando vide Peppone non scappò, ma gli fece anzi un sacco di complimenti.
È una bestia straordinaria, — disse Peppone. — Io a quel tipo là non gliela ridarei più neanche se venisse qui coi carabinieri.
Don Camillo sospirò.
*   * *
Il tipo di città ritornò a galla una settimana dopo. Era in tenuta da caccia con un gioiello di doppietta belga leggera come una piuma.
È scappato anche di là, — spiegò. — Sono venuto a vedere se, alle volte, fosse tornato.
È tornato proprio ieri, — rispose cupo don Camillo. — Riprendetevelo pure.
Ful guardò il padrone e ringhiò.
Stavolta ti sistemo io! — esclamò il tipo di città avvicinandosi al cane.
Ma Ful ringhiò ancora più sordamente e il tipo di città perdette la calma e gli allentò un calcio.
Porco maledetto! Ti insegno io la creanza! — gridò. — Fa' la cuccia!
Il cane si distese per terra sempre ringhiando e allora don Camillo intervenne.
È un cane di razza: non va preso con la violenza. Lo lasci tranquillo un minuto che si calmi. Entri a bere un bicchiere.
L'uomo entrò nella saletta. Don Camillo scese a prendere una bottiglia, ma prima di arrivare alla cantina trovò il tempo di scrivere un bigliettino e di darlo al ragazzino del campanaro:
Portalo di corsa a Peppone, in officina. Nel biglietto c'erano poche parole: «È tornato il tipo. Prestami subito ventimila lire perché cerco di comprare il cane. Urgentissimo».
Il tipo di città bevve qualche bicchiere di fontanina, chiacchierò del più e del meno con don Camillo, poi guardò l'orologio e si alzò:
Mi dispiace, ma devo andare. Gli amici mi aspettano per le undici al Crocilone. Dobbiamo fare una battuta di caccia e ho appena il tempo di arrivare all'appuntamento.
Ful era ancora accovacciato nel suo angolino e, appena vide il tipo di città, ringhiò.
E ringhiò ancora più minaccioso quando il tipo gli si avvicinò.
In quel momento si sentì il fracasso di una motocicletta e don Camillo affacciandosi alla porta vide che Peppone era arrivato.
Don Camillo gli fece un cenno interrogativo e Peppone rispose facendo cenno di sì con la testa. Poi gli mostrò le due mani aperte, e poi ancora una mano intera e un dito dell'altra. Poi, con la palma della destra rivolta in basso tagliò l'aria in senso orizzontale.
Questo significava che aveva sedicimila e cinquecento lire.
Don Camillo trasse un respiro di sollievo.
Signore, — disse al tipo di città, — come lei vede, il cane l'ha presa in odio. Sono cani di razza che non dimenticano e lei non riuscirà mai a spuntarla. Perché non me lo vende?
Don Camillo fece mentalmente i conti di tutte le sue risorse, poi concluse:
Posso darle diciottomila e ottocento lire: è tutto quello di cui dispongo.
Il tipo di città sghignazzò:
— Reverendo, lei scherza: questa bestia mi costa ottantamila lire e non la venderei neanche per cento. Se mi ha preso in antipatia gliela farò passare.
Incurante del fatto che Ful ringhiasse minaccioso, il tipo di città agguantò il cane per il collare e lo trascinò verso la macchina. Poi tentò di cacciarlo dentro la macchina ma il cane urlando prese a divincolarsi e con le unghie rigò la vernice del parafango.
Il tipo di città perdette la calma e, con la mano libera, incominciò a tempestare di pugni la schiena della bestia. Il cane si agitò furiosamente e, riuscito ad agguantare la mano che lo teneva per il collare, la morsicò.
L'uomo lasciò urlando la presa e il cane andò ad accucciarsi contro il muro della canonica, e di lì stette a guardare ringhiando il suo nemico.
Don Camillo e Peppone, che avevano seguito a bocca aperta la scena, quando si accorsero di quello che stava succedendo non ebbero neppure il tempo di dire bai. Il tipo di città, pallido come un morto, aveva cavato dalla macchina la doppietta e l'aveva puntata contro il cane.
— Porco maledetto! — disse a denti stretti facendo partire un colpo.
Il muro della canonica si macchiò di sangue: Ful dopo un guaito straziante giacque immobile per terra.
Il tipo di città intanto era risalito sull' «Aprilia», partendo a tutta birra. Don Camillo non s ne accorse neppure e neppure si accorse che Peppone era saltato sulla motocicletta e se ne era andato anche lui.
Don Camillo, inginocchiato davanti a Ful, pensava soltanto a Ful.
Il cane lo guardò gemendo quando don Camillo lo accarezzò leggermente sulla testa. Poi gli lambì la mano.
Poi si levò in piedi e abbaiò allegramente.
*
Peppone ritornò dopo una ventina di minuti. Era in pressione e stringeva i pugni.
L'ho raggiunto al casello di Fiumaccio: qui ha dovuto fermarsi perché c'erano le sbarre del passaggio a livello abbassate. L'ho cavato fuori dalla «Aprilia» e gli ho date tante di quelle sberle da fargli venire la faccia grossa come un'anguria. Lui ha tentato di prendere il fucile e allora io glie l'ho rotto sulla schiena.
Erano nell'andito: un guaito lo interruppe.
Non è ancora morto? — domandò Peppone.
Ha preso soltanto una sventagliata sul sedere, — spiegò don Camillo. — Roba superficiale: in una settimana sarà più in gamba di prima.
Peppone si passò, perplesso, la manaccia sul mento.
Comunque, — spiegò don Camillo, — moralmente lui l'ha ammazzato. Quando ha sparato sul cane, la sua intenzione era quella di ammazzarlo. Se Sant'Antonio Abate gli ha fatto sbagliare la mira, questo non diminuisce di un millimetro la vigliaccheria del gesto. Tu hai fatto malissimo a prendere a sberle quel disgraziato perché la violenza è sempre da condannare. Comunque...
Appunto: comunque! — disse Peppone. —
Quello là di sicuro non si farà più vedere da queste parti e così voi ci avete guadagnato un cane!
Mezzo cane, — specificò calmo don Camillo. — Perché moralmente io ti sono debitore delle sedicimilacinquecento lire che non mi hai prestato, ma che eri disposto a prestarmi. Quindi mezzo cane è anche tuo.
Peppone si grattò la pera.
Vecchio mondo, — borbottò, — per la prima volta trovo un prete che si comporta da galantuomo e non frega il popolo!
Don Camillo lo guardò minaccioso:
Giovanotto, se la buttiamo in politica, io cambio registro e mi tengo tutto il cane.
Come non detto, — esclamò Peppone, il quale era sì quello che era ma, alla fine, il cacciatore è uomo e perciò ci teneva molto di più a conservare la stima di Ful che quella di Marx, di Lenin e mercanzia del genere.
Ful, col sedere fasciato, arrivò nell'andito e, con un lieto abbaiare, mise il sigillo al patto di non aggressione.

FINE















Nessun commento:

Posta un commento